Nascere nel grembo del togliattismo gesuitico, opportunista e guicciardiniano. Crescere negli strapizzoni post ungheresi, post praghesi, post berlinesi. Agitarsi in tutti i revisionismi, scoprire l'America, quella politically correct dei Kennedy, of course. Spendersi in anni di buonismo di facciata, scrivere romanzacci che una invereconda piaggeria cortigiana esalta come capolavori, promuovere festival funesti e caciaroni. Finalmente, assurgere - quarantasette morto che parla - a leader di un partito che, non ancora nato, manda già grevi segnali di decomposizione etico-politica. Ritrovarsi, golden boy ultracinquantenne, con in capo la corona di Romolo Augustolo: piccolo, ridicolo imperatore di una casta asserragliata nei suoi palazzi e nei suoi privilegi, ricattata dai suoi mercenari, disprezzata dai suoi sudditi.
Walter Veltroni si è affacciato alla platea che attendeva svogliata il suo verbo e ha fatto un discorso tanto vuoto quanto prolisso che sembrava scritto da un democristiano decrepito come Arnaldo-Forlani-posso-parlare-per-ore-senza-dire-nulla. Ha sudato copiosamente nelle spirali involute di un perfetto discorso da conte zio: sopire, troncare, troncare, sopire. Ha raccolto i flosci applausi di circostanza e ha dato il via a una serie di commenti sui media che sono ancora più scontati e più noiosi del suo soporifero discorso.
Nel frattempo il Partito Democratico è ancora fermo in cantiere, nelle pastoie di lavori in corso ora sonnolenti ora esagitati, ma sempre inconcludenti, in attesa del giorno fatale in cui il nuovo capitano si insedierà sulla plancia di questo ipertrofico, sgangherato Titanic e trionfalmente lo guiderà nel viaggio inaugurale.
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